Con ordinanza n. 493 depositata in data 10.1.2019, la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione ha rimesso la causa al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite, ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c., affinchè vi sia pronuncia su due questioni di particolare interesse:  se lo swap, in particolare quello che preveda un upfront -e non sia disciplinato ratione temporis dalla I. n. 133/2008, di conversione del d.l. n. 112/2008- costituisca per l’ente locale un’operazione che genera un indebitamento per finanziare spese diverse da quelle di investimento, a norma dell’art. 30, comma 15, I. n. 289/2002; e se la stipula del relativo contratto rientri nella competenza riservata al Consiglio comunale implicando una delibera di spesa che impegni i bilanci per gli esercizi successivi, in forza dell’art. 42, comma 2, lett. i), t.u.e.I..

La sentenza della Corte di appello di Bologna, oggetto di gravame, aveva infatti qualificato l’upfront alla stregua di un indebitamento («esplicito») e, come tale, vietato sia dall’art. 119, comma 6, Cost., sia dall’art. 202 t.u.e.I., sia infine dall’art. 30, comma 15, I. n. 289/2002 (norma, quest’ultima, vigente al momento della conclusione dei primi due contratti).

Parimenti riteneva fondato il rilievo del Comune per il quale, ex art. 42, comma 2, lett. i), t.u.e.l. (testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con d.lgs. n. 267/2000), le delibere di accensione degli swap avrebbero dovuto essere assunte dal Consiglio Comunale, prevedendo spese che impegnano i bilanci per gli esercizi successivi.

Con riguardo alla prima questione la Corte di Cassazione svolge le seguenti considerazioni. In termini generali, afferma il Giudice di Legittimità, non sembra possibile prescindere dalla natura aleatoria del contratto di swap e dalla sua potenziale attitudine a generare una passività. Ciò in forza del principio per cui le nozioni di indebitamento e di investimento non possono considerarsi «nozioni il cui contenuto possa determinarsi a priori, in modo assolutamente univoco, sulla base della sola disposizione costituzionale» (così Corte cost. 29 dicembre 2004, n. 425), ma tenendo comunque conto che «la ratio del divieto di indebitamento per finalità diverse dagli investimenti trova fondamento in una nozione economica di relativa semplicità», e cioè nel rilievo per cui «destinazioni diverse dall’investimento finiscono inevitabilmente per depauperare il patrimonio dell’ente pubblico che ricorre al credito» (Corte cost. 2 luglio 2014, n. 188).

Osserva, peraltro, la Corte di Cassazione, che lo stesso giudice delle leggi, occupandosi dell’accesso alla finanza da parte degli enti locali, ha osservato come «i derivati finanziari scontino un evidente 11 rischio di mercato, non preventivamente calcolabile, ed espongano gli enti pubblici ad accollarsi oneri impropri e non prevedibili all’atto della stipulazione del contratto, utilizzando per l’operazione di investimento un contratto con caratteristiche fortemente aleatorie per le finanze dell’ente» (Corte cost. 18 febbraio 2010, n. 52).

Secondo il Giudice di legittimità la questione si presta a una particolare declinazione ove si abbia riguardo al dato, valorizzato dalla Corte di merito, del versamento, in occasione della stipula dei primi due contratti, dell’upfront. Già in precedenza la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18781 del 28.07.2017, si era marginalmente interessata di tale elemento laddove affermava che il contratto di interest risk swap con upfront non è di per sé nullo per difetto o illiceità della causa, occorrendo verificare caso per caso il concreto assetto dei rapporti negoziali predisposto dalle parti. In detta pronuncia, peraltro, sembra non dubitarsi che la somma in questione costituisca l’oggetto di un effettivo finanziamento iniziale da restituire (anche se, si ripete, il tema non è ivi specificamente affrontato).  Ciò posto, osserva la Corte, l’upfront viene corrisposto per pareggiare il mark to market di un derivato non par al momento della stipula.

Si è tuttavia discusso, sia in dottrina che in giurisprudenza, se la somma erogata dalla banca al cliente -che può trovare diverse ragioni  giustificative sul piano pratico (riduzione del rischio verso la controparte che paga l’upfront, esigenze di liquidità, semplice incentivo del cliente alla stipula di un contratto di contenuto aleatorio … )- sia suscettibile di assolvere a una funzione creditizia (generando un obbligo restitutorio che si attuerà con i pagamenti che il percettore dell’upfront dovrà porre in atto, al netto di quelli che dovrà ricevere).

Seguendo tale impostazione, secondo la Corte di Cassazione, potrebbe ritenersi che la conclusione di swap con upfront consenta certamente all’ente locale di acquisire una disponibilità di cassa immediata, evidentemente utile per la gestione delle spese correnti o per il ripianamento di precedenti esposizioni debitorie, ma genererebbe, al contempo, un indebitamento (seppure potenziale, tenuto conto che il contratto è pur sempre aleatorio e la previsione dei flussi potrebbe rivelarsi errata in favore del cliente).

In tal senso la Suprema Corte ripercorre i precedenti pronunciati dalla Corte dei conti nella propria Relazione sull’andamento generale della gestione finanziaria degli enti locali negli esercizi 2003 e 2004, in cui si sottolineava come con il versamento dell’upfront fosse realizzata una «operazione analoga alla contrazione di un mutuo, laddove la sua concessione comporta un tasso o uno spread che attualizza il premio corrisposto in via anticipata dalla banca al cliente». Sul punto, tuttavia, avendo riguardo ai contratti conclusi dagli enti locali, si registra un orientamento non univoco da parte della Corte dei conti: così Corte conti Sez. reg. giur. Sicilia n. 2376 del 2006 ha escluso che la percezione dell’upfront da parte dell’ente pubblico integri indebitamento (osservando, sul punto, come, in linea di principio, col contratto di swap si provveda alla sostituzione di un tasso variabile a un tasso fisso), mentre ciò è stato espressamente riconosciuto da altre pronunce rese in sede di controllo (in tal senso, ad esempio, Corte conti Sez. reg. contr. Lombardia n. 596 del 2007).

Con riferimento alla seconda questione, correlata alla prima trattata (e attinente alla contestata validità dei contratti conclusi, siccome preceduti da una delibera del consiglio comunale che conteneva una mera linea di indirizzo), secondo la Corte di Cassazione è necessario chiarire se la conclusione di contratti swap (specie laddove prevedano un upfront: quindi una somma suscettibile di rimborso nel corso del rapporto) possa essere sottratta alla competenza del Consiglio Comunale a cui è riservata ogni decisione in materia di «spese che impegnino i bilanci per gli esercizi successivi», a norma dell’art. 42, comma 2, lett. i), t.u.e.I..

Sul punto la Corte di Legittimità richiama le considerazioni svolte dalla Corte dei conti, in sede di controllo: «Invero, il rischio finanziario, derivante dalla gestione attiva del debito connessa alla sottoscrizione del contratto di swa p, espone l’Amministrazione a possibili perdite finanziarie future che solo l’Organo consiliare del Comune può, consapevolmente, autorizzare, in quanto organo di indirizzo e di controllo politico amministrativo deputato, ai sensi dell’art. 42 del t.u.e.I., ad approvare gli atti di spesa che impegnino i bilanci per gli esercizi successivi’. Sotto questo profilo, la delibera del Consiglio comunale non può limitarsi ad autorizzare l’operazione in modo generico, ma deve indicare, analiticamente, gli indirizzi operativi che devono condurre alla conclusione dell’operazione nonché i vincoli finanziari che l’Ente intende assumere (es. tassi, durata, obblighi, etc.)» (Corte conti Sez. reg. contr. Lombardia, n. 405/2010).

A tale indirizzo, che può intestarsi ad altre pronunce delle sezioni di controllo della Corte dei conti (ad es.: Corte conti Sez. reg. contr. Umbria n. 41 del 2008) si contrappone, però, una recente pronuncia del Consiglio di Stato con cui è stato escluso che ai contratti di swap si correli la fattispecie delle spese pluriennali prevista dalla lettera i) dell’art. 42, comma 2, t.u.e.I..

Dopo aver premesso che la competenza consiliare sui medesimi atti è una conseguenza della collocazione del medesimo organo al vertice del ciclo di programmazione economica e finanziaria dell’ente, in virtù della quale ad esso è attribuito il potere decisionale sui «bilanci annuali e pluriennali e relative variazioni» ex art. 42, comma 2, lett. b), t.u.e.I., il Consiglio di Stato ha osservato che gli swap si collocano al di fuori di questo schema.

Così precisa il Giudice amministrativo: «la loro funzione consiste (rectius: una delle loro funzioni può consistere) nella riduzione degli oneri finanziari legati all’indebitamento già contratto e dunque alla diminuzione dei rischio ad essi legato». Viene aggiunto: «Gli swap possono dunque rivestire la finalità di ristrutturare il debito, ed in particolare quello avente un orizzonte pluriennale, allineandone le condizioni economiche ai tassi di mercato esistenti, così da ottenere risparmi di spesa e, 15 in particolare per gli enti locali, liberare risorse a carico del bilancio già impegnate. Da questa notazione si evince che le ragioni che conducono alla stipula di questi contratti è addirittura antitetica a quella che presiede all’attribuzione al consiglio comunale della competenza sulle spese pluriennali ai sensi della lettera i) dell’art. 42, comma 2, t.u.e.I., su cui si fonda l’annullamento d’ufficio».  Secondo tale iter argomentativo la conclusione di swap non può essere considerata un atto di assunzione di una spesa pluriennale, dovendosi piuttosto qualificare come «atto di gestione dell’indebitamento dell’ente locale con finalità di riduzione degli oneri finanziari ad esso inerenti, legittimamente adottabile dalla giunta comunale in virtù della sua residuale competenza gestoria ex art. 48, comma 2, del testo unico di cui al d.lgs. n. 267 del 2000» (Cons. Stato 30 giugno 2017, n. 3174).

Alla luce delle considerazioni svolte, ritenuta la particolare importanza delle questioni trattate la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione ha dunque rimesso la causa al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite, ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c..

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