LA CORTE D’APPELLO DI TORINO RICONOSCE L’ILLEGITTIMITÀ DI TALUNE DECURTAZIONI STIPENDIALI OPERATE DALLE AZIENDE SANITARIE IN DANNO A MEDICI E VETERINARI, A CAUSA DI UN’INTERPRETAZIONE DELLA NORMA, SOSTENUTA DAL MEF, MA GIÀ RITENUTA  ERRATA DALLE OO.SS.

A cura del dott. Mauro Gnaccarini

Una sentenza di assoluta rilevanza, circa gli effetti economici che i dirigenti medici e veterinari hanno subito a partire dal lungo periodo del cosiddetto “blocco contrattuale”, e ancora subiscono, è stata pronunciata dalla Corte d’Appello di Torino – Sezione lavoro, all’udienza del 7/2/2019.

Per comprendere la portata della pronuncia occorre tuttavia svolgere alcune premesse. Il contratto collettivo nazionale – CCNL – dell’Area della dirigenza medica e veterinaria (e invero non solo) è stato assoggettato a un blocco, prima “ex lege” poi “di fatto”; inizialmente determinato da quanto disposto con D.L. 78/2010 (conv. L. 122/2010) per ragioni di finanza pubblica legate alla nota crisi, successivamente il “blocco” è proseguito di fatto, giacché la parte pubblica, in carenza di risorse, non convocava le Organizzazioni sindacali. La situazione è proseguita anche dopo la Sentenza della Corte Costituzionale n. 178/2015, che ha sancito l’illegittimità di una protratta impossibilità per le OO.SS. di svolgere la loro principale prerogativa, consistente proprio in una contrattazione collettiva che possa comunque ed altresì essere agita risultando disponibili risorse economiche adeguate (detta Sentenza espone in modo significativo, fra l’altro, che “La  contrattazione  deve  potersi  esprimere  nella  sua  pienezza  su  ogni  aspetto  riguardante  la determinazione  delle condizioni di lavoro, che attengono immancabilmente anche alla parte qualificante dei profili  economici” e che “In ragione di una vocazione che mira a rendere strutturale il regime del blocco, si fa  sempre più evidente che lo stesso si pone di per sé in contrasto con il principio di libertà sindacale sancito dall’art. 39, primo comma, Cost.”, ed ancora che “il contratto collettivo contempera in maniera efficace e trasparente gli interessi contrapposti delle parti e concorre a dare concreta attuazione al principio di proporzionalità della retribuzione, ponendosi …. …. come fattore propulsivo della produttività e del merito”, e infine – a proposito dei lunghi periodi di sospensione della contrattazione sottoposti al vaglio della Consulta – come sia “parimenti innegabile che tali periodi debbano essere comunque definiti e non  possano essere protratti ad libitum”).

Ma le controparti pubbliche non hanno mai soddisfatto le richieste dei sindacati di categoria, volte ad ottenere, semplicemente, condizioni economiche sostanzialmente già riconosciute a diversi altri settori contrattuali del pubblico impiego, sicché la contrattazione collettiva nazionale dell’area in questione vive tuttora una situazione di stallo denunciata come ormai insostenibile dalle stesse Organizzazioni sindacali.

Nel contesto dell’anzidetta situazione di blocco, il citato D.L. 78/2010, come poi modificato dalla Legge n. 147/2013 art. 1 comma 456, dispose altresì e in particolare, per quanto qui interessa, che per il quadriennio 2011-2014 l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio (per quanto segue, si noti bene: trattamento accessorio!) del personale delle PP.AA. non potesse superare il corrispondente importo dell’anno 2010 e dovesse comunque essere ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio. Non bastasse, il medesimo comma 456 ha stabilito altresì che «A decorrere dal 1º gennaio 2015, le risorse destinate annualmente al trattamento economico accessorio sono decurtate di un importo pari alle riduzioni operate per effetto del precedente periodo». Una disposizione invero per nulla chiara (nonostante l’apparenza), cui è seguita ancora una volta una Circolare del MEF (n. 20/2015) contestata dalle OO.SS. ed alla quale hanno fatto perciò seguito interventi dottrinali non convergenti e iniziative giudiziarie; la dottrina ha evidenziato come la norma potesse essere letta in due modi assai diversi, con effetti economici altresì diversi e non di poco: – secondo il MEF e i commentatori datoriali la norma avrebbe imposto l’applicazione al fondo de quo del limite relativo all’anno 2010, l’ulteriore riduzione dello stesso con riferimento al personale rimasto in servizio al 2014 e la storicizzazione del risultato derivante da tale operazione come base di partenza per ogni successiva eventuale implementazione secondo legge o CCNL sopravveniente. Secondo una diversa “lettura” (sposata appieno dal Giudice di prime cure di Cuneo – vd. infra) la norma avrebbe sì reso irrecuperabili le decurtazioni operate nel quadriennio precedente, rendendo storicizzato tale risparmio di spesa, tuttavia non intervenendo, e non potendo intervenire, sul ricalcolo del fondo, il quale restava da farsi a norma di CCNL vigente, con decorrenza dal 1/1/2015 e però sulla base del “consolidato al 31/12/2010” incrementato appunto come previsto dal CCNL non più “bloccato”; ciò in ragione del fatto che diversamente (come da indicazioni del MEF) si sarebbe determinata una perenne impossibilità, per il fondo di posizione, di essere incrementato come da CCNL, nonostante il sopravvenuto “sblocco” dello stesso, con conseguente lesione definitiva delle prerogative sindacali in materia di contrattazione anche economica, lesione da ritenersi in violazione dell’art. 39 Cost., così come del resto ben argomentato dalla già richiamata sentenza della Consulta (178/2015).

Questo secondo, dibattuto, intervento normativo, anche in questo caso ha comportato, comunque, da parte delle aziende sanitarie, l’applicazione dettata dal MEF, naturalmente più restrittiva per i lavoratori e più favorevole per le casse delle Amministrazioni e dunque dello Stato; sicché – come detto – anche questa applicazione si trova “sub judice”, giacché la causa promossa tempo addietro sul punto, da parte di diversi medici dell’ASO S.Croce e Carle di Cuneo, ha visto una pronuncia favorevole in primo grado, cui è conseguito l’Appello, da parte dell’Amministrazione ospedaliera, tuttora pendente.

Si deve perciò considerare come il secondo intervento normativo, storicizzando il fondo di posizione derivante dalle decurtazioni compiute nel quadriennio precedente, e potendo pure operare tale storicizzazione in due modi assai diversi, attribuisca un peso assai rilevante all’interpretazione che risulterà consolidata in conclusione della prima vertenza di cui in epigrafe e qui in commento.

A tal punto occorre anche puntualizzare come sia costituita, fin dal CCNL 1994-1997, la retribuzione dell’area dirigenziale medica e veterinaria, eccettuate talune indennità particolari. Esclusa la retribuzione tabellare, numerosi istituti retributivi gravano su tre separati fondi fin da allora disciplinati dal contratto collettivo nazionale. Si tratta del fondo cd. “di risultato”, finalizzato a retribuire il raggiungimento di specifici obiettivi annuali, del fondo cd. “del disagio”, finalizzato a retribuire le guardie, le reperibilità, lo straordinario e alcune indennità di disagio specifico, nonché del fondo cd. “di posizione”, destinato principalmente a retribuire la posizione ovvero la tipologia di incarico dirigenziale proprio del singolo; fondo ora oggetto del contenzioso in commento e nondimeno del secondo sopra menzionato. Infatti, al di là della specifica finalizzazione del “fondo di posizione”, gravano sul medesimo sia alcuni istituti retributivi che la contrattazione collettiva ha stabilito costituire retribuzione fondamentale (i quali assorbono oltre il 70% del fondo), sia un istituto retributivo costituente retribuzione accessoria (che assorbe meno del 30% del fondo): l’indennità di posizione cd. “variabile aziendale” in quanto oggetto di trattativa integrativa con le OO.SS. e definizione in tale sede, sulla base del numero e della “pesatura” degli incarichi dirigenziali che l’Azienda conferisce in relazione a criteri determinati nella stessa sede.

Il contenzioso sul quale si è pronunciata la Corte d’Appello di Torino, tralasciando il “petitum” dei ricorrenti inerente le loro diverse posizioni lavorative nel tempo succedutesi alle dipendenze di amministrazioni diverse, verte sostanzialmente sul fatto che le decurtazioni di legge, ex D.L. 78/2010 e s.m. e i., dovessero gravare esclusivamente sulla componente del fondo di posizione destinata a retribuzione accessoria; mentre il MEF (vd. Circolare n. 12, del 15/04/2011, della Ragioneria dello Stato) diede disposizioni secondo cui gli interi contenuti di qualsiasi fondo aziendale dovevano essere considerati, da ogni P.A., come destinati interamente a retribuzioni accessorie. È da allora convinzione delle OO.SS., ma anche nostra e della maggioranza dei giuslavoristi, che il MEF abbia errato, così come ora sancito dalla Corte d’Appello di Torino, giacché la specificità del “fondo di posizione” dell’Area dirigenziale medica e veterinaria (invero dell’Area sanitaria in genere) è assoluta; considerato altresì e in particolare che l’Area dirigenziale dei Ministeri è governata da un contratto collettivo nazionale che prevede invece un solo fondo sul quale gravano solo retribuzioni accessorie (sarà forse stata tale specifica differenza ad aver indotto in errore il Ministero E. e F.).

Ad ogni buon conto tutte le Amministrazioni sanitarie del Paese si adeguarono a quanto comunque disposto dal MEF e procedettero a decurtare interamente i “fondi di posizione”, mentre i lavoratori e le loro rappresentanze sindacali lamentavano ripetutamente che tali fondi dovessero esser decurtati solo per la quota sulla quale gravava la citata retribuzione accessoria; la quale, costituendo come detto meno del 30% del fondo, avrebbe determinato decurtazioni assai meno consistenti e, quindi, la permanenza sul medesimo fondo di risorse di cui avrebbero altrimenti beneficiato i dirigenti anzidetti.

In definitiva, la sentenza in commento ha per ora confermato la ragionevolezza di quanto invocato dai dirigenti medici e veterinari, interpretazione che anche a noi è parsa invero assai fondata sotto ogni profilo. Ma, corre l’obbligo del “per ora”, giacché da un lato la sentenza farebbe comunque stato soltanto fra le parti, dall’altro, per divenire perlomeno giurisprudenza di rilievo, deve “passare in giudicato”, sempre che l’Azienda sanitaria torinese non decida di ricorrere al giudizio della Corte di Cassazione; eventualità che pare comunque probabile, tenuto conto non tanto degli effetti economici che deriverebbero dall’applicazione della sentenza stessa rispetto ai tre ricorrenti, quanto della sua portata generale, ben comprensibile alla luce di tutto quanto sopra argomentato.

Sicché, a tal punto, non vi è alcuna impellente necessità di promuovere ricorsi da parte dei medici e dei veterinari che potrebbero ben vantare una posizione creditoria analoga a quella dei tre ricorrenti dell’ASO torinese, tenuto conto che tali ricorsi andrebbero promossi, avanti al G.O. Lavoro, nei confronti di ciascuna azienda e con l’adesione individuale di ciascun interessato, quindi in modo molto laborioso e oneroso, specie volendo coinvolgere tutte le aziende sanitarie del Paese, come per equità si deve immaginare sarebbe richiesto da ciascuna Organizzazione sindacale per i propri iscritti. In attesa quindi di conoscere se l’ASO soccombente intenda effettivamente ricorrere presso la Suprema Corte, ovvero se la sentenza in questione possa invece divenire definitiva, ogni eventuale credito può ben restare esigibile da parte di ciascun dirigente a condizione che venga depositato uno specifico atto costitutivo e interruttivo della prescrizione, ove non già fatto, che per un verso deve naturalmente risultare sottoscritto singolarmente da ciascun interessato, ma per altro verso può ben assumere forma collettiva, a iniziativa dell’organizzazione sindacale e tuttavia con il possibile aiuto del legale; attività come quelle che, su richiesta delle OO.SS. SIVeMP e FVM, questo Studio sta svolgendo, e resta disponibile a svolgere seguendo analogamente anche ogni altra istanza eventualmente posta all’attenzione.

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